La finanza comportamentale e le scelte previdenziali

Il nostro Pinocchio vivendo in una favola non deve preoccuparsi del suo futuro pensionistico, ma per i nostri giovani? Vivono anche loro nel mondo delle favole

La Riforma del Sistema Previdenziale italiano (Legge 214/2011),  ha inequivocabilmente sancito la necessità per i giovani di sottoscrivere forme di previdenza autonome

Ma i giovani hanno recepito l’urgenza?

Sappiamo che le persone non siano particolarmente abili nel programmare i propri piani di risparmio, o si astengano dal pianificare per il futuro.

A prima vista, tale scarsa lungimiranza nella programmazione si spiega attraverso il concetto di razionalità limitata. Le scelte sono troppo complicate, poiché richiedono il calcolo e la conoscenza di diverse variabili (reddito atteso futuro, tasso di interesse, tasso di inflazione e così via). Variabili che negli ultimi anni sono diventate ancora più incerte, rendendo il calcolo del tasso di risparmio ottimale ancora più difficile. Il problema è però più complesso: le distorsioni e le procedure euristiche non devono essere considerate la sola conseguenza delle scorciatoie della mente umana, ma sono l’effetto di vere e proprie «anomalie» del nostro processo valutativo.

Se ai soggetti di un esperimento vengono offerti 5 euro oggi o 6 domani, la maggioranza sceglierà i 5 subito, ma se sono offerti 5 euro tra 100 giorni o 6 tra 101, la maggioranza sceglie i 6 tra 101 giorni. Trova analoga giustificazione anche la procrastinazione delle scelte previdenziali.

La tendenza a procrastinare le decisioni spesso si traduce in inerzia

Lo status quo bias può essere visto come un’implicazione dell’avversione alle perdite e di quella al rimpianto: gli individui hanno una tendenza a protrarre lo status quo, perché gli svantaggi che si otterranno abbandonandolo sembrano maggiori dei vantaggi. Lo status quo bias si può spiegare come un’anomalia della percezione umana per cui si ha una naturale tendenza a rimanere nella situazione attuale, restando dunque attaccati ai modelli predefiniti, alle opzioni scontate (opzioni di default). Gli individui tendono a conservare la situazione preesistente, lo status quo. Questo fenomeno è ancora maggiore nell’ambito delle decisioni previdenziali, in quanto queste ultime sono caratterizzate da una maggiore complessità e riguardano fasi della nostra vita solitamente molto lontane nel tempo.

Dagli studi comportamentali emerge poi lo stravolgimento della tradizionale credenza economica che avere più scelte sia una situazione sempre preferibile. Un eccesso d’informazione e il maggiore livello di complessità producono ritardo ed inerzia: gli individui trovandosi di fronte a scelte complesse decidono di non scegliere.

Anche l’influenza delle «norme sociali» sulle decisioni dei singoli trova ampia evidenza negli studi di psicologia sociale. E’ dimostrato che persone con più intense relazioni sociali hanno maggiore probabilità di acquistare azioni o di partecipare a piani pensionistici integrativi. 

Se la scelta di quando cominciare a contribuire è certamente la prima variabile a influenzare l’accumulo nei piani previdenziali, Choi et al. [2006] mostrano che, una volta presa la decisione di partecipare, è la scelta del tasso di contribuzione ad influenzare in modo decisivo l’ammontare effettivamente accumulato. Anche in questo caso la limitata razionalità di comportamento unita ad una ridotta conoscenza del funzionamento delle leggi della capitalizzazione porta i lavoratori a commettere errori nella scelta dei piani di contribuzione.

Il trasferimento di rischi e responsabilità verso i lavoratori non si limita alla scelta se aderire o no e quanto contribuire, ma riguarda anche l’allocazione delle risorse accumulate. Decisioni che, a parità di reddito da lavoro e contribuzione, possono provocare rilevanti differenziali di reddito pensionistico. Nel caso italiano, i lavoratori, ad esempio, oltre a scegliere se aderire o no alla pensione complementare, devono decidere se avvalersi di una forma pensionistica collettiva, istituita in base di contratti collettivi, o di una forma pensionistica individuale. Negli schemi previdenziali ogni dipendente si assume la responsabilità delle decisioni di investimento. Un tale trasferimento di competenze si basa sul concetto che gli investitori siano in grado di costruire un portafoglio d’investimento ottimo secondo le regole della Moderna Teoria del Portafoglio (Mtp).

L’ultima decisione che un agente economico deve prendere in campo pensionistico riguarda il veicolo da utilizzare nella fase di decumulo del risparmio previdenziale. Le opzioni tra cui scegliere sono sostanzialmente due: un capitale una tantum, equivalente al montante del risparmio accumulato, o una rendita vitalizia commisurata al risparmio accumulato e alla speranza di vita. La teoria economica dimostra che vi sono validi motivi (efficienza, convenienza, assicurazione di certi rischi, adeguatezza risparmio previdenziale) per scegliere una rendita vitalizia ma l’evidenza empirica mostra risultati contrastanti. Nel nostro paese, dai dati forniti dalla Covip, la commissione di Vigilanza sui Fondi Pensione, nella Relazione annuale [Covip 2011], emerge un esiguo ricorso allo strumento rendita.

In letteratura, la giustificazione della scelta di non trasformare l’intero risparmio previdenziale in rendita, si introduce l’«altruismo», ovvero la volontà di generare un lascito per gli eredi. Una motivazione di questo tipo, pur razionale, si scontra con la formulazione presente nella teoria dell’homo oeconomicus come soggetto egoista e massimizzatore dell’utilità individuale. Il desiderio di lasciare un’eredità potrebbe essere sopravvalutata o potrebbe essere sempre meno rilevante per il futuro.

Esercita un effetto considerevole anche l’effetto vitalizio pubblico, in base al quale, considerata la natura di rendita del vitalizio pubblico sarebbe maggiormente opportuno diversificare la natura del trattamento previdenziale inserendo una forma di capitale.

Le scelte di decumulo toccano anche la sfera dell’emotività, poiché l’acquisto di una rendita potrebbe essere considerata una scelta «pericolosa» per il rammarico che può generare. A prima vista, si potrebbe obiettare che in questo caso il rammarico giochi un ruolo marginale, in quanto della situazione avversa, la premorienza, il defunto, proprio perché tale, non potrebbe manifestare rimpianti. Questa obiezione ignora, però, la possibilità che se un individuo convertisse la maggior parte del risparmio previdenziale in una rendita e poi scoprisse di avere una malattia tale da assicurargli solo una limitata sopravvivenza, durante gli ultimi mesi/anni di vita egli potrebbe vivere con un senso di rimpianto molto forte. Anche se la situazione appena ricordata è poco probabile, gli individui potrebbero sovrappesarne la probabilità quando si trattasse di decidere sull’acquisto di una rendita. Eventi più facili da immaginare, quali appunto morire dopo aver acquistato una rendita, sono spesso sovrastimati nel processo decisionale.

In tema di framing, Brown et al. [2008] suggeriscono altre interessanti implicazioni. La domanda di rendite può essere presentata secondo due diversi quadri concettuali: da un lato, un frame di consumo, si tratta qui di un inquadramento più ampio in cui si spinge l’agente a concentrare l’attenzione sul risultato finale, vale a dire quanto si avrà a disposizione per spendere; dall’altro lato, un frame di investimento, quadro questo più ristretto, concentrato sui risultati intermedi dell’investimento, quali il rendimento e il rischio. Se un agente utilizza un frame di investimento ristretto, la rendita può apparire una scelta rischiosa e poco conveniente. Se si confrontano un’obbligazione governativa priva di rischio di credito e una rendita prezzata equamente, si analizzano due strumenti dalla redditività analoga, ma con un rischio percepito molto diverso. L’obbligazione genera un flusso di reddito cedolare noto per importo e durata. La rendita può produrre un rendimento maggiore, se la sopravvivenza in vita è più lunga, minore se invece breve. In ottica di investimento, dunque, la rendita appare più aleatoria ed è percepita come più rischiosa e quindi meno gradita. La possibilità di premorienza è rappresentata mentalmente come una possibile perdita nell’investimento e l’avversione alle perdite spinge ad abbandonare l’opzione. La perdita possibile è particolarmente problematica, poiché la rendita non offre un rendimento atteso più elevato per remunerare questo «rischio extra». Ricerche di mercato sembrano confermare questo punto di vista, in quanto molti consumatori percepiscono le rendite come «lotterie» e non come assicurazioni.

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